Negli Usa un campus fa incontrare israeliani e palestinesi. Per avvicinare i giovani. E insegnare loro il rispetto per l’altro.
Scambi di accuse, negoziati a singhiozzo e tregue troppo fragili per giustificare le speranze di una pace duratura.
È un’utopia, oggi, il dialogo tra israeliani e palestinesi. Schiacciata sotto il peso di una realtà crudele, fin troppo evidente.
Decine di esplosioni straziano Gaza ogni giorno. E il numero dei morti cresce inesorabilmente.
Ma mentre a ridosso della Striscia l’incubo pare non avere fine, a migliaia di chilometri di distanza, un gruppo di adolescenti israeliani e palestinesi lavora per cambiare le cose.
UN CAMPUS NEL MAINE. Sono i ragazzi di Seeds of Peace, organizzazione no profit che da più di 20 anni offre a giovani provenienti da aree di conflitto l’opportunità di incontrare da vicino “il nemico” e trascorrere un mese insieme. L’obiettivo è fornire alle nuove generazioni (i seeds, appunto) gli strumenti per condurre le loro società verso una pace duratura.
A Otisfield, nel Maine (Usa), si svolge l’International Camp, appuntamento annuale in cui i ragazzi hanno l’occasione di confrontarsi faccia a faccia con l’”altro lato”, durante sessioni di dialogo e attività sportive e culturali che hanno lo scopo di sviluppare le capacità di leadership e comunicazione attraverso il lavoro di squadra.
180 PARTECIPANTI, IL 50% DA ISRAELE E PALESTINA. Dei 180 partecipanti di quest’anno, circa la metà proviene da Israele e Palestina.
«In una situazione come questa, la cosa più importante è creare un ambiente tranquillo in cui parlare in libertà e onestà», ha spiegato Eva Armour, responsabile dei programmi di Seeds of Peace.
«Le notizie che arrivano da casa producono una forte pressione sui ragazzi. Noi cerchiamo di creare un ambiente neutrale e privo di pregiudizi in modo che possano condividere le proprie esperienze e ascoltare le ragioni dell’altro».
La formazione dei seeds prosegue poi a livello regionale nei loro Paesi di origine. Per quanto riguarda il Medio Oriente, «Seeds of Peace ha staff in Israele, Palestina, Egitto e Giordania», ha detto Armour.
«La peculiarità della situazione ci costringe a un lavoro di educazione permanente: oltre ai campi estivi, offriamo agli studenti anche corsi di leadership. Purtroppo non basta farli incontrare, bisogna anche lavorare sulla percezione della Palestina con cui questi ragazzi sono cresciuti».
L’organizzazione è nata nel 1993 su iniziativa di John Wallach, pluripremiato giornalista e autore americano. Nello stesso anno i ragazzi di Seeds of Peace sono stati ospiti del presidente Bill Clinton durante la storica firma degli Accordi di Oslo tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca. Attualmente Seeds of Peace opera in 27 nazioni distribuite tra Medio Oriente, Asia meridionale, Europa e Stati Uniti.
Gli studenti non devono pagare alcuna retta perché l’associazione riesce a ottenere i finanziamenti per i campus. In questo modo l’accesso è garantito a ragazzi provenienti da qualsiasi fascia sociale e la selezione è interamente meritocratica. Ogni anno l’organizzazione riceve più di 8 mila candidature, il 66% delle quali proviene da Paesi del Medio Oriente (Israele, Palestina, Egitto e Giordania).
IL 94% NON HA MAI AVUTO CONTATTI COL ‘NEMICO’. Il 41% dei seeds mediorientali è stato toccato personalmente dalla violenza del conflitto e il 94% dichiara di non aver mai avuto contatti con l’”altro lato” prima dell’esperienza in Seeds of Peace. «Se anche ci sono stati degli incontri», ha detto Eva Armour, «raramente vengono definiti positivi. Per esempio, i palestinesi incontrano gli israeliani ai check point che non sono l’ambiente ideale per fare conoscenza».
Lior Amihai, israeliano, è figlio di un diplomatico e sin da bambino ha potuto viaggiare molto. Lior ha partecipato al programma di Seeds of Peace nel 1999. Ha fatto i tre anni di servizio militare obbligatorio nell’esercito d’Israele e ora è vicedirettore dell’Osservatorio sulle colonie di Peace Now, l’organizzazione pacifista non governativa israeliana fondata, tra gli altri, dallo scrittore Amos Oz.
L’ISRAELIANO LIOR: «TEL AVIV SBAGLIA». «Essere un seed è stata una grande opportunità per me», ha spiegato Lior, «per la prima volta ho imparato qualcosa dalle esperienze degli altri e la mia mente si è aperta a una prospettiva nuova. Improvvisamente il conflitto è diventato “umano”, ho visto i volti e ascoltato le voci dell’”altro lato”». «Quando ho incontrato i miei coetanei palestinesi», ha aggiunto, «mi sono reso conto di come ognuna delle due parti consideri solo le proprie ragioni e il proprio punto di vista». È come trovarsi di fronte a due monologhi che non riescono a diventare dialogo.
«Il vero problema d’Israele è di avere una visione molto ristretta del conflitto e di rapportarsi ai palestinesi con atteggiamento di superiorità», ha concluso Lior. «Per questo è molto importante che ognuno abbia la possibilità di conoscere e capire chi c’è dall’altra parte».
Mahmoud Jabari, palestinese, è nato e cresciuto a Hebron, nella parte della città controllata dall’esercito israeliano. Ora studia Comunicazione e giornalismo negli Stati Uniti. «La situazione era decisamente tesa, difficile – a volte un inferno», ha raccontato. «Fin da bambino ho visto carri armati e bombardamenti e sono stato colpito dalle pietre lanciate dai coloni israeliani». «La mia famiglia aveva accesso ai canali televisivi satellitari. Pochi, ma potevi vedere il mondo. Un giorno, mentre guardavo una gara di sci trasmessa dalla Francia, mi domandai: ‘ma perché noi non possiamo avere una vita come quella?’. Non intendevo di certo la neve, ma per me quel divertimento senza pensieri era qualcosa di irraggiungibile».
«Sono cresciuto interessandomi alla situazione della mia gente. Era inevitabile. Un giorno sarebbe toccato a me fare delle scelte, mi sentivo responsabile. Per questo sono diventato un giornalista, per raccontare e far conoscere».
UNA MISSIONE DIVERSA. Mahmoud ha scoperto Seeds of Peace grazie alla madre e, dopo un anno di preparazione, è riuscito a entrare nel programma nel 2007.
«Decisi di iscrivermi non perché volessi incontrare gli israeliani, bensì per continuare la mia missione: far conoscere le storie del nostro popolo. Nella mia mente, Seeds of Peace era solo un altro palcoscenico da cui diffondere informazione. Non ero davvero disposto ad ascoltare la prospettiva israeliana; per me non erano legittimati a farlo, erano gli occupanti e perciò nel torto».
Ma una volta arrivato al campus qualcosa cambiò: «Per la prima volta incontrai israeliani della mia stessa età. Gli unici coi quali mi era capitato di avere a che fare in precedenza erano coloni e l’incontro non era stato piacevole. Seeds of Peace mi mostrò il volto umano del “nemico”. Mi mise in contatto con le loro storie e le loro sofferenze, che prima non conoscevo».
«ISRAELE E PALESTINA SI VEDANO COME PARTNER». Mahmoud ha le idee chiare: «Finché entrambi i contendenti non vedranno l’altro come un essere umano, non rispetteranno la sua dignità e il suo diritto a una vita piena e ricca di prospettive – finché Israele e Palestina non si considereranno dei partner – non faremo nessun progresso verso la pace. E questo l’ho imparato solo grazie a Seeds of Peace».
Forse un giorno Lior e Mahmoud si troveranno a un tavolo per discutere la pace tra i loro due popoli. E dalla loro parte avranno grande rispetto e piena consapevolezza l’uno dell’altro.
(Ha collaborato Francesco Morstabilini)
Leggi l’articolo Sara Zolanetta a Lettera43 ››